L’acqua dei contadini
Fontanili, lavoro, architettura rurale nel bacino del lago di Nemi
“C’è più bellezza di quanta i nostri occhi possano sopportare, cose preziose sono state messe nelle nostre mani e non fare nulla per onorarle equivale ad arrecare un grave danno”.
( Marilynne Robinson, Gilead, 2008)
La storia di un territorio può essere raccontata a partire dagli oggetti, dalle cose, risalendo pian piano alla rete dentro la quale si trovano invischiate altre storie: una di queste è quella che riguarda gli uomini, negli aspetti del lavoro, del vivere quotidiano, di quanto hanno saputo fare e costruire per rendere migliore la loro esistenza. (Vivavoce n.87 p.4/6)
Si può avere una prima idea di come la fertile valle ed il bacino del lago di Nemi fossero utilizzati nel secolo scorso a fini agricoli percorrendo il sentiero del Tempio di Diana, appena fuori dal paese. A sinistra della porta medievale in blocchi di peperino e basalto chiamata la “Portella” inizia un antico sentiero recuperato dal comune negli anni novanta e recentemente ripulito dagli operai del Parco Regionale dei Castelli Romani.
Scendendo a valle su una pavimentazione di scapoli di pietra locale delimitati da stangoni in peperino che conforma una comoda rampa, si incontrano tra la vegetazione i segni della vita rurale e contadina dei secoli passati. La conca del lago che appare a sinistra volgendo lo sguardo al mare, nelle mattinate di primavera è illuminata da un sole tiepido e dorato: il paesaggio risplende (fig.1-2).
Qui come in altri luoghi i segni ancora visibili sul territorio sono espressione della concreta necessità da parte di una comunità di attingere al proprio patrimonio di risorse, di utilizzare le capacità di una tecnologia spesso povera ma utilissima e molto ingegnosa per garantire l’adattamento delle proprie esigenze di vita con quelle del territorio e dell’ambiente con il quale si condivide il destino.
Poco prima dello slargo con il fontanile si nota la presenza di due strutture murarie che erano adibite al ricovero degli animali: la stalla di “Ngelotto” e poco lontano la stalla di “Norato” detto “Catenarciu” che ci teneva i cavalli. Architettura popolare, autoprodotta, che utilizza i sassi presenti in loco ed il legname del bosco, a terra si notano i segni delle canaline per allontanare l’acqua, verso il dislivello a monte le classiche murature a secco di contenimento del terreno.
Il fontanile è alimentato dall’acqua che filtra da un cunicolo drenante posto sul lato sinistro dietro la vasca, si riconosce anche il muro di fondo con una struttura in blocchi di pietra e malta che termina descrivendo un arco informe, al di sopra la vegetazione. Al centro del muro si nota un alloggiamento di 75 x 85 cm circa, profondo 10 cm, ben riquadrato: è lo stampo del bassorilievo con l’immagine della madonna ed iscrizioni, trafugato. L’acqua sgorga da un tubo di ferro e riempie un secchio di 5 litri in 2 minuti e 13 secondi (2.30 litri al minuto circa). A sinistra si nota un masso ben squadrato con al centro l’impronta scalpellata di un foro cilindrico di diametro 7 cm, sembra la fuoriscita dell’acqua, forse in epoca antecedente l’immissione del tubo di ferro. La pietra scalpellata ha la faccia di 22 x 23 cm, il piazzale è lastricato con scheggioni di basalto e bordato da stangoni di peperino squadrati (fig.2). Nei pressi un cartello ricorda l’ultimo intervento di recupero significativo su progetto della fondazione Euronatur che assegnò quindici anni fa al comune di Nemi il riconoscimento di “Comune Esemplare d’Europa” per la qualità delle politiche ambientali.
Scendendo, dopo una curva a destra, continuano le murature di sostegno del terreno montate “a secco” con pietra locale, selce e peperino incastrate ad arte (fig. 4). Poco dopo c’è un bivio: a sinistra si prosegue verso le antiche Mole dove si macinava il grano, davanti il sentiero si inoltra in una località detta “Pietrara” perché gli abitanti venivano a raccogliere i sassi che servivano per costruire le “macère”.
A circa venticinque metri dal bivio sulla destra si apre una vasca che si collega a due cunicoli con le pareti intonacate e sostenuti, il primo di fronte, da un arco in mattoni e l’altro a sinistra, da una piattabanda sempre in mattoni. La vasca di forma rettangolare irregolare, misura 2.30 m di larghezza per 3.00 m di lunghezza al netto dei muri (cm 40), ed è profonda 1.50 m, è piena d’acqua a metà: si sente lo sgocciolio dell’acqua nei cunicoli (fig. 5).
E’ solo una parte, visibile di un sistema di raccolta dell’acqua che ha garantito lo sviluppo del lavoro e la sopravvivenza della società rurale. Accanto, infatti, al vasto complesso delle gallerie filtranti (Vivavoce N.83/2009) che distribuiva l’acqua alla comunità di Genzano, esiste, nel bacino del lago, una rete che costituisce un sottoinsieme dei cunicoli più grandi dispersa tra i fondi privati. Tale rete è costituita anche da altre strutture di raccolta, di conserva e alimentazione antiche che innervano tutto il sottosuolo e delle quali sarebbe urgente uno studio più approfondito prima che se ne perdano le tracce ancora percepibili.
Utilizzando cunicoli preesistenti o scavandone di nuovi nella roccia ad inseguire le vene dell’acqua, i contadini riempivano cisterne e pozzi collegati da tubi in pendenza ed irrigavano i loro terreni con sistemi a caduta: mai fuori misura per evitare frane a valle.
Tutto aveva un ordine e tanto i fossi naturali tenuti in efficienza, quanto le opere costruite dagli agricoltori per la gestione del proprio lavoro formavano un saldo e funzionante sistema di utilizzo, di manutenzione, di bonifica e controllo del territorio e del paesaggio. Il paesaggio inteso come serie di elementi naturali e costruiti percepiti dagli abitanti, mutava nel tempo, accompagnando i lenti cambiamenti sempre in un rapporto armonico con l’ambiente circostante. “Il terreno fa la casa ma la casa non fa il terreno” si sente dire ancora oggi dagli anziani di Nemi: un modo di dire pieno di saggezza e rispetto.
Molti terreni dei contadini avevano delle vasche di raccolta dell’acqua derivata dai cunicoli filtranti: i “formali” e in questi terreni, detti “nacquativi”, si piantavano fiori (narcisi e poi crisantemi) e frutta mentre nei terreni poveri di acqua detti “seccativi” si coltivavano i “paglierini” che sono dei bei fiori gialli secchi nell’aspetto e la vigna.
Tutto era a sistema per la buona riuscita del lavoro si dovevano costruire le macère, incanalare l’acqua, drenare il terreno lavorare con forza ed arrivare a sera con la stanchezza di un combattimento quotidiano. Ma pochi oggi ricordano quell’immane lavoro quella fiera fatica dove tutto si teneva in equilibrio grazie al “sapere” dei contadini che avevano visto lavorare i padri e i nonni. E’ verosimile che data la presenza più in basso del Santuario alcune cisterne costituissero le riserve d’acqua di quella che fu un’imponente struttura politico religiosa ben prima dei Romani.
Risalendo il sentiero e tornando sulla provinciale che scende al lago, interrotta oggi per frane, si raggiunge lo slargo della cava dei “Ciocci” e la fontana delle “Pozza” con due vasche al lato della strada la più grande di 1.45 x 0.66 m al netto dei muri, la seconda più piccola è separata dalla prima da un diaframma di 7 cm, misura 50 x 66 cm. Qui cade l’acqua proveniente da una canalina laterale con tubo di gomma recente ma che era di coppi di laterizio simile a tutti quelli riscontrati nel vasto sistema di raccolta dalle gallerie filtranti; la bocca riempie 3 litri in 1 minuto e 44 secondi (1.7 litri al secondo circa) (fig. 6).
Questi fontanili, numerosi e ben conservati un tempo, sono dislocati lungo le vie di collegamento tra la campagna ed il paese; ristoravano gli uomini e le bestie di ritorno dal lavoro a casa ed alle stalle concedendo una pausa ed un momento di riposo. Simili nella tipologia e con uguali caratteristiche costruttive sono comunque diversi gli uni dagli altri, vederli da lontano o dopo una svolta dava sollievo e conforto. Nell’insieme sono monumenti dell’arte popolare e ricordano anche a chi, trascurandoli, ne decreta la morte che lo sforzo per la sopravvivenza dei nostri antenati da cui dipendiamo è ancora visibile ed ha il diritto culturale all’esistenza.
Circa dieci anni fa per celebrare queste storie di semplice vita quotidiana, in ricordo del sacrificio della fatica e del lavoro di generazioni di persone, fu costruito un fontanile in piazza Umberto 1° oggi rimosso (fig. 7).
L’abbandono delle vie d’acqua, la rimozione del moderno fontanile che ricordava fino a qualche anno fa un sistema complesso, cancellerà lentamente dalle menti dei cittadini i valori della collettività e dei suoi beni: i proprietari dell’ambiente, dell’acqua, del paesaggio non saranno più le genti, ma gli occasionali interessi di singoli.
Si ringraziano Vairo Canterani, Rossano Palazzi e Claudio Gismondi per le informazioni legate ai nomi ed ai fatti della vita locale.
scritto da Franco Medici |